L’entusiasmante avventura dei più grandi scalatori delle Alpi
Il resoconto si concentra simbolicamente tra due estremi che delimitano la stagione eroica dell’alpinismo: dalla prima ascensione sul Monte Cervino nel 1865 ad opera di Edward Whymper fino alla salita in solitaria in inverno di Walter Bonatti sulla parete nord della stessa cima nel 1965. Cent’anni di racconti ai limiti del mitologico come le imprese di Tita Piaz sulle Torri del Vajolet o quella di Bonatti quando sotto la cima del Petit Dru rischiò il tutto per tutto (anche perché indietro ormai non poteva più tornare) utilizzando la corda come un vero e proprio lazo. Ci siamo voluti concentrare proprio su eroi che spiccano come cime tra tutti: Emilio Comici, Giusto Gervasutti, Ettore Castiglioni, Riccardo Cassin, e appunto Walter Bonatti. Ognuno di loro ha un tratto che lo contraddistingue pur nel comune amore di tutti per la montagna e il raggiungimento della sua vetta.
Comici con quella sua ricerca del gesto estetico perfetto, sia nella singola mossa plastica che nella traiettoria perfettamente perpendicolare. Gervasutti il Fortissimo con i suoi pensieri malinconici che non lo rendevano mai soddisfatto, sempre alla ricerca di un nuovo stimolo. Castiglioni che sfrutta le sue capacità e la sua conoscenza per salvare ebrei ed esuli durante e dopo la Seconda Guerra. Cassin col suo gusto di condivisione delle imprese. Bonatti con la sua necessità di far emergere l’avventura creativa proprio in mezzo alla difficoltà e all’imprevisto. Storie che si intersecano l’una con l’altra: seppur distanti negli anni si ammirano l’un l’altro come discepoli nei confronti dei maestri. C’è spazio anche per storie apparentemente più piccole ma che raccontano del medesimo amore per la contemplazione e della medesima necessità dell’azione, come la storia del Papa montanaro di Desio, Achille Ratti o del Professor Kugy alla ricerca sulle Alpi di un fiore introvabile.
Chi ha saputo descrivere con maestria e consonanza queste avventure è stato lo scrittore Dino Buzzati, vero amante delle Alpi (di Belluno, chiese di chiudere gli occhi di fronte alle sue Dolomiti) che nei resoconti che fece come cronachista sul Corriere della Sera accende riflessioni e poesie (c’è spazio anche per quelle così intense della montanara di Pasturo Antonia Pozzi) che ci inducono a interessarci a quegli alpinisti come uomini prima di tutto: “Senza quegli impulsi temerari, disinteressati, e apparentemente folli, all’uomo verrebbe a mancare la famosa fiammella”.
Sono stati definiti gli ultimi eroi della storia d’Italia. A noi piace considerarli uomini che hanno vissuto la vita in pienezza: con impeto e in contemplazione.
Da qui l’idea di proporlo come esperienza teatrale ai ragazzi di cui seguo il corso di teatro al Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza: mai come ora essi hanno la necessità di appassionarsi a storie di vita vissuta e sfide faticose (ben prima del Covid). Quanto è stato importante a tal proposito averli portati a metà del corso, come esperienza naturale, accompagnati dall’amico alpinista Alfonso Villa, sulla Cima Sodadura! Una sorta di tappa intermedia che ha portato tutti e trenta i partecipanti a vivere con immedesimazione e intensità l’esperienza dell’esibizione finale. Un’esibizione che in quanto teatro non può che essere anche tragedia: così fu definita la prima storia che si narra, quella del Monte Bianco nel 1961.
Ma per chi lo fa il teatro è soprattutto, come d’altra parte la vita, una scalata di cui cogliere la preziosità nella fatica, vera linfa vitale dell’educazione (guai a considerarlo come spazio rubato o alternativo allo studio). Come direbbe Castiglioni: “La vita vissuta è solo quella conquistata. Perciò la vita è difficile e deve essere difficile, come un’ascensione che non può essere bella se non è anche difficile. Ove non c’è difficoltà, non c’è lotta; ove non c’è lotta, non c’è conquista. Perciò la vita è lotta”.
Indispensabile contributo a questo volume viene da due artisti, Emanuele Dottori e Maria Paola Grifone, che corredano il testo di ritratti di alpinisti e cime scalate: uno stimolo verace a sentire la gioia immensa, tutta umana, dell’ebbrezza della Cima.
I due artisti hanno collaborato fianco a fianco affinché le immagini fossero un aiuto ad entrare nel testo e nella sua drammaticità e profondità, dai colori all’impaginato: quasi monocromo nelle immagini, con i colori delle rocce e della neve, a cui si aggiunge l’unica nota forte del colore rosso dei titoli, quello delle corde più usate negli anni ’60.
Nella simbiosi quasi amorosa che avviene nella scalata, uomo e roccia si fondono, e l’alpinista è vero amante che abbraccia la sua montagna: per questo motivo, e per la loro forza fisica e spirituale, Maria Paola Grifone ha immaginato gli Eroi come uomini-scultura, nati e temprati da quelle pareti, tanto da assimilarne la natura granitica; l’iconografia da lei scelta non è né celebrativa né da memoriale: sono loro, vivi, nel pieno dell’azione o nella contemplazione assorta, con lo sguardo rivolto sempre oltre, anche quando si guardano dentro.
È in quella interiorità che Emanuele Dottori colloca le sue montagne: la simbiosi tra alpinisti e montagne diviene simbiosi tra le due rappresentazioni, che volutamente si scambiano i ruoli: così gli uomini diventano di roccia, e le montagne si smaterializzano, per mutarsi nell’idea filosofica di se stesse, o del cammino immaginato per raggiungerle; i profili e i costoni si sfuocano e le immagini si allontanano come in una cartolina d’epoca sbiadita, per diventare ciò che sono prima e dopo la scalata, nella mente dei protagonisti: visioni interiori dell’oggetto del desiderio, oppure ricordi indelebili delle emozioni vissute nel raggiungerlo. Ma soprattutto ci appaiono per ciò che rappresentano nell’animo di questi eroi: l’icona di un modo esemplare di esperienza e di vita.